Insisto: bisogna rispondere al Papa e ai vescovi che chiamano all’impegno (e anche alla nostra vocazione di cristiani, come c’insegna la nostra storia)

L’appello del Papa e del presidente dei vescovi italiani ai cattolici per l’impegno in politica (in tutte le sue accezioni sociali, culturali e civili) è insistente e accorato. Possibile che associazioni, parrocchie e movimenti lo lascino cadere nell’indifferenza?

Possibile che si disperda un secolo di storia del movimento cattolico che ha letteralmente salvato la libertà in Italia, ha ricostruito il Paese, la sua coesione sociale e l’ha reso uno dei più prosperi e civili del mondo? Eppure anche oggi ci sarebbe bisogno di buona politica e buone classe dirigenti: la Germania è tornata ad essere la locomotiva dell’Europa, il paese leader, grazie al governo cristiano-democratico (che l’aveva anche portata alla riunificazione).

Da noi la Dc non c’è più, ma i cattolici sì. A volte sembra quasi che manchi loro la coscienza di una storia. Mi sono chiesto, per esempio, perché nessuno si sia indignato quando – nel programma cult di quest’anno, davanti a dieci milioni di persone – Fazio e Saviano hanno avuto la faccia di presentare, come i depositari dei “valori” del futuro, il (post) fascista e il (post) comunista.

Al di là di Fini e Bersani – che, poverini, non hanno nemmeno le spalle per portare quelle terribili storie – le due ideologie che hanno devastato questo Paese meritano il marchio d’infamia, non possono certo essere proposte come il positivo della storia italiana. Eppure tale condanna morale oggi sembra toccare invece a chi ha salvato e ricostruito questo Paese.

Sembra che un certo De Gasperi sia stato del tutto dimenticato. Pure nelle celebrazioni del 150° anniversario dell’Italia unita nessuno ha ricordato che si deve a lui (e all’impegno dei cattolici del 18 aprile 1948, in primis Pio XII e Luigi Gedda) se l’Italia è rimasta, dal dopoguerra, un Paese libero, indipendente e unito. Tutto questo è stato censurato e rimosso. Ma la colpa è anzitutto di noi cattolici che forse, negli ultimi anni, ci siamo ritirati nelle sacrestie, che abbiamo cancellato una memoria e una presenza sociale e che – come dimostrano anche le recenti elezioni e il referendum – rischiamo di tornare alla subalternità degli anni Settanta, quando il mondo cristiano, frantumato, disperso e impaurito, era succube di ogni vento di dottrina, come ebbe a dire il cardinale Ratzinger.

Eppure proprio lo stesso Ratzinger, da Papa, ha pronunciato parole chiare. La sua chiamata all’impegno – per i credenti – è stata accorata. Cito solo uno dei suoi ultimi discorsi, quello del 7 maggio, ad Aquileia:

“Raccomando anche a voi, come alle altre Chiese che sono in Italia, l’impegno a suscitare una nuova generazione di uomini e donne capaci di assumersi responsabilità dirette nei vari ambiti del sociale, in modo particolare in quello politico. Esso ha più che mai bisogno di vedere persone, soprattutto giovani, capaci di edificare una ‘vita buona’ a favore e al servizio di tutti.

A questo impegno infatti non possono sottrarsi i cristiani, che sono certo pellegrini verso il Cielo, ma che già vivono quaggiù un anticipo di eternità”. Il cardinale Bagnasco, presidente della Cei, il 23 maggio, nella sua prolusione all’assemblea dei vescovi italiani, ha ribadito:

“La politica che ha oggi visibilità è, non raramente, inguardabile, ridotta a litigio perenne, come una recita scontata e – se si può dire – noiosa. È il dramma del vaniloquio, dentro – come siamo – alla spirale dell’invettiva che non prevede assunzioni di responsabilità.

La gente è stanca di vivere nella rissa e si sta disamorando sempre di più… La nostra opzione di fondo, anche per il conforto dei ripetuti appelli del Papa resta quella di preparare una generazione nuova di cittadini che abbiano la freschezza e l’entusiasmo di votarsi al bene comune, quale criterio di ogni pratica collettiva. Più che un utopismo di maniera, serve una concezione della politica come ‘complessa arte di equilibrio tra ideali e interessi’ (Benedetto XVI, 21 maggio 2010), concezione che per questo, cioè per il suo saper evitare degenerazioni ciniche, si fa intelligenza amorosa della realtà e cambiamento positivo della stessa”.

Bagnasco ha poi aggiunto: “Quale che sia l’ambito in cui si collocano − professionale, associativo, cooperativistico, sociale, mediatico, sindacale, partitico, istituzionale… − queste persone avvertono il dovere di una cittadinanza coscienziosa, partecipe, dedita all’interesse generale.

Affinché l’Italia goda di una nuova generazione di politici cattolici, la Chiesa si sta impegnando a formare aree giovanili non estranee alla dimensione ideale ed etica, per essere presenza morale non condizionabile”. Alla conclusione dell’assemblea dei vescovi, il Papa, presiedendo la preghiera di affidamento dell’Italia alla Madonna, ha ripreso il tema (tanto gli sta a cuore) e ha affermato:

“Incoraggiate le iniziative di formazione ispirate alla dottrina sociale della Chiesa, affinché chi è chiamato a responsabilità politiche e amministrative non rimanga vittima della tentazione di sfruttare la propria posizione per interessi personali o per sete di potere. Sostenete la vasta rete di aggregazioni e di associazioni che promuovono opere di carattere culturale, sociale e caritativo”.

Perché questo pressante appello sembra cadere nel vuoto? Eppure è reso urgente dalla situazione del Paese, da una crisi economica e sociale che sembra diventare drammatica, dalla confusione di una classe politica che appare spesso inadeguata. Cerchiamo di capire allora cosa significhi in concreto questo appello della Chiesa.

Certamente esso non significa cercare individualmente una candidatura (ovvero una poltrona) mettendosi il distintivo di “cattolico”. Tanto è vero che da Vendola a Forza nuova, il panorama politico è pieno di singoli politici che si dicono cattolici e che si contrappongono gli uni agli altri, con contenuti antitetici. No.

L’impegno dei cattolici è sempre fiorito da un “noi”, da un’appartenenza ecclesiale e da realtà di popolo che vivono la dottrina sociale della Chiesa. Nella storia del cattolicesimo del Novecento il punto di partenza è sempre stato anzitutto l’educazione alla fede, che si riceve nelle parrocchie, nei movimenti, nelle associazioni e che – se è autentica – spinge a dare giudizi culturali, a fare iniziative sociali, educative e caritative, a proporre una concezione della città e del Paese in cui si vive.

I cattolici arrivano alla politica insieme, non individualmente, attraverso realtà prepolitiche dove – fra l’altro – si impara uno sguardo cristiano sulla realtà, si rende la dottrina sociale della Chiesa un giudizio sul presente e si comincia ad assumersi delle responsabilità pubbliche, vivendole come servizio. Così è stato dagli anni Settanta il Movimento popolare che raggruppava non solo ciellini, ma persone provenienti da altre realtà cattoliche come Azione cattolica, Cisl, Acli, cooperative bianche. Per certi versi è stato un tentativo che ha anticipato il pontificato di Giovanni Paolo II. Oggi la situazione è simile a quella degli anni Settanta e quell’esperienza merita di essere ripensata e ripresa.

Nei giorni scorsi, su “Tempi”, ho lanciato (anzitutto ai miei amici di CL) l’idea di riprendere il cammino del Movimento popolare, proprio perché mi pare che possa essere la via giusta per cominciare a realizzare quanto ci chiede la Chiesa. Oltre alla risposta cordiale di Formigoni – che del Mp fu uno dei fondatori – ho ricevuto centinaia e centinaia di mail e telefonate entusiastiche di persone comuni, padri, madri, insegnanti, intellettuali, studenti, imprenditori.

Tanti di loro mi hanno detto: era ora, è quello che stavamo aspettando. Ci sono molti altri argomenti a sostegno di questa proposta e li ho elencati nella mia lettera a “Tempi”.

Ovviamente si può ritenerla sbagliata, ma – se si è cattolici – si ha il dovere di spiegarne le ragioni e di dire in quale altro modo si pensa di rispondere alla “chiamata” della Chiesa. Perché in questo momento i cattolici mancano all’appello.

Antonio Socci

da: Libero del 12/6/2011