La Ru486 uccide ancora |
Salgono a trentadue le morti accertate per l’uso della pillola Ru486. Infatti una ragazza portoghese di sedici anni è morta dopo un aborto realizzato con il farmaco per shock settico da Clostridium Sordellii, infezione finora diagnosticata nei decessi da aborto realizzato con questo metodo solamente negli Stati Uniti. Ne hanno dato notizia studiosi portoghesi durante il «21° Congresso europeo di microbiologia clinica e malattie infettive» (Eccmid) che si è tenuto nei giorni scorsi a Milano.
«Spero che ora quanti hanno propagandato l’idea di un aborto farmacologico indolore e facile – commenta il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella –, riproponendosi così lo scopo politico di allargare le maglie della 194 in nome dell’aborto a domicilio, si ricredano e prendano in seria considerazione questo decesso. Finora si era sostenuta la tesi di un’incerta connessione tra morti e pillola abortiva, affermando che quelle accertate fossero dovute a una sindrome riscontrabile solo in America, ma adesso questo ragionamento si rivela del tutto infondato. Mi aspetto dunque adeguate reazioni di preoccupazione per la salute della donna, purtroppo invece mi sembra che da molti organi di stampa si sia voluto passare sotto silenzio i rischi della pillola, venendo meno al compito di dare una corretta informazione sull’uso del farmaco e sulle sue criticità».
La ragazza portoghese ha effettuato un aborto con mifepristone seguito dal misoprostol, dopo cinque giorni si è presentata in ospedale. I decessi per uso di Ru486 e prostaglandine salgono così a 32, perché 20 sono avvenuti a scopo abortivo, ma ad essi se ne sommano altre 12 per persone che avevano preso la Ru486 per l’uso cosiddetto "compassionevole", cioè sperimentale e non a scopo abortivo.
«Il Ministero della Salute – aggiunge la Roccella – segnalerà il caso all’Ema, l’agenzia di farmacovigilanza europea, chiedendo un supplemento di indagine e un aggiornamento sulle segnalazioni di decessi e complicanze». Inoltre sarà inviata una circolare agli assessori alla Sanità di tutte le Regioni raccomandando l’applicazione delle linee guida elaborate dal ministero insieme al Consiglio superiore di Sanità, che prevedono che l’intera procedura venga eseguita in regime di ricovero ordinario, per salvaguardare al meglio la salute delle donne. «Solo così infatti è possibile un monitoraggio costante, e si è in grado di fronteggiare ogni situazione per tempo, la ragazza portoghese invece purtroppo è arrivata in ospedale quando la situazione era già compromessa». Nelle prossime settimane, aggiunge il sottosegretario, saranno resi noti i dati sugli aborti effettuati con la Ru486 nel nostro Paese nel suo primo anno di commercializzazione.
La Roccella richiama anche i risultati di un recente studio australiano, dal quale risulta che le complicazioni dopo l’aborto farmacologico sono molto più frequenti di quelle a seguito di aborto chirurgico, in base ai risultati di 7.000 aborti effettuati tra il 2009 e il 2010 con la Ru486 nel sud dell’Australia, che hanno confermato i dati già noti della letteratura scientifica. A darne la notizia, giorni fa, è stata una ricerca pubblicata sulla rivista australiana dei medici di medicina generale <+corsivo>Australian Family Physicians<+tondo>, nello Stato dell’Australia meridionale. In Australia l’uso della pillola Ru486 è stato introdotto cinque anni fa ed è sempre più diffuso. I dati illustrati dalle autrici, Eva Mulligan e Hayley Messenger, sono riferiti al primo trimestre di gravidanza e indicano che ha dovuto rivolgersi al pronto soccorso di un ospedale il 3,3% delle donne che hanno usato la pillola Ru486, contro il 2,2% di coloro che avevano subìto l’intervento chirurgico. Più in generale l’incidenza di complicazioni gravi è apparsa più alta nell’aborto chimico.
Prendendo come esempio l’emorragia grave, le autrici hanno segnalato che si è verificata in due pazienti su 5823 sottoposte ad aborto chirurgico; mentre lo stesso problema è stato riscontrato in quattro delle 947 che hanno avuto aborti chimici. Il tasso di incidenza è stato quindi di una su tremila nel primo caso, di una su 200 nel secondo: quindici volte maggiore. Comunque già in un editoriale comparso sul New England Journal of Medicine nel 2005 si era dimostrato che la mortalità era 10 volte maggiore con il metodo chimico rispetto a quello chirurgico.
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Pier Luigi Fornari da: Avvenire del 12/5/2011 |