La Casta

“A Roma spadroneggia un piccolo gruppo di padreterni, i quali si sono persuasi, insieme con qualche ministro, di avere la sapienza infusa nel vasto cervello”. Questa micidiale zampata (datata 1919) di Luigi Einaudi apriva l’editoriale di ieri del Corriere della sera, firmato da Gian Antonio Stella (uno dei due autori del meritorio best-seller “La casta”). Una bella sberla sul Palazzo. Ma sentite il seguito di Einaudi servito dall’editoriale di Stella: “Bisogna licenziare questi padreterni orgogliosi… Troppo a lungo li abbiamo sopportati”. E ancora: “si sciolgano commissioni, si disfino commissariati e Ministeri” cosicché “un po’ alla volta tutta questa verminaia fastidiosa sia spazzata via. Coloro che lavorano sono stanchi di essere comandati dagli scribacchiatori di carte d’archivio” superiori alla società governata “soltanto per orgoglio e incompetenza”. Qui la “sberla” del Corriere sembra diretta personalmente a Prodi, visto che il premier, giorni fa, si è avventurato a sentenziare che la società civile “non è migliore” di lorsignori politici. L’editoriale di Stella aveva questo titolo: “Einaudi, la casta e l’Italia del ’19”. Le ampie citazioni di Einaudi provengono dagli articoli che egli scriveva per il Corriere della sera di Albertini. Non è la prima volta che Paolo Mieli – direttore, ma anche storico – evoca il Corriere albertiniano.

I nomi di Einaudi ed Albertini sono diventati terreno di battaglia già in luglio. Piero Fassino, con un’infelice battuta, li aveva citati per criticare il Corriere sul caso Unipol-Bnl. Giustamente Mieli, per tutta risposta, lo bombardò con la sua firma di punta, lo storico Ernesto Galli della Loggia: un’intera pagina per dimostrare che il Corriere di Albertini e Einaudi, così “libero da influenze esterne”, è pari pari quello dell’ “attuale direzione del giornale”. Quindi un’antica e nobile tradizione liberale, insofferente di una certa politica romana e coscienza critica del potere. Tornare a evocare Albertini, probabilmente, oggi serve a Mieli anche per mettere sull’altolà chi a Roma coltivasse il sogno di defenestrarlo. Infatti la voce scomoda di Albertini, notoriamente, fu zittita dal nascente regime fascista. E con un precedente così imbarazzante sarebbe davvero uno scandalo se a Mieli venisse fatta pagare, dal Palazzo, la meritoria polemica contro la “casta”.

Tuttavia spingersi troppo in là con i paragoni storici, per Mieli, alla fine può essere controproducente. Per esempio Galli della Loggia elogia il Corriere albertiniano perché fu “un vero e proprio giornale-partito (altro che asettica neutralità e cautela!): praticamente la vera opposizione”. Cosa che ha fatto nascere il sospetto, in alcuni maliziosi, che a via Solferino il direttore faccia lo stratega di nuovi assetti politici e tiri la volata a qualche Montezemolo. Ma né Montezemolo, né Mieli hanno questi grilli (nel senso di Beppe) per la testa. Piuttosto, mentre picchiano sulla casta politica, va detto che anche le menti del Corrierone dovrebbero riconoscere i loro errori come i politici se non vogliono trasformarsi pure loro in un “piccolo gruppo di padreterni persuasi di avere la sapienza infusa nel vasto cervello”. Albertini di errori ne commise diversi. Dall’appoggio filodannunziano alla guerra di Libia fino all’ “iniziale simpatia verso il fascismo” (come dice pudicamente Galli Della Loggia).

L’ “iniziale simpatia” di Mieli, più modestamente, è stata per Prodi. Alla vigilia delle elezioni del 9 aprile 2006 collocò pubblicamente il Corriere a favore dell’Unione con un editoriale (il 28 marzo 2006) dove il direttore fece addirittura l’elogio di Rifondazione comunista. Probabilmente – visto l’esiguo scarto di voti – fu decisivo per la vittoria di Prodi. Cosa che toglie un bel po’ di credibilità: 1) all’attuale polemica mielista contro il massimalismo di sinistra; 2) alla sua opposizione antiprodiana e 3) alla campagna anticasta del Corriere. Se prima delle elezioni il giornale-istituzione fosse stato al di sopra delle parti ed egualmente critico con Prodi e con Berlusconi (com’era nella tradizione del Corriere), oggi sarebbe stato più titolato nell’accomunare tutta la classe politica nella critica. Non che sia proibito avere ripensamenti. Tutt’altro, è lodevole. Ed è benvenuta l’attuale polemica contro l’establishment politico. Ma prima sarebbe stato serio riconoscere l’abbaglio del 2006 nell’appoggiare questo centrosinistra. D’altronde Mieli – con la sua onestà intellettuale - ha già fatto una revisione autocritica per gli anni Settanta e per la stagione di Mani pulite. Anche se è mancato all’appuntamento autocritico con il referendum sulla legge 40 quando il Corriere capeggiò l’enorme schieramento che pretendeva di rappresentare la maggioranza degli italiani e prese una storica tranvata trovandosi contro il 75 per cento del Paese.

Un ultimo problema. Siamo proprio sicuri che Albertini fosse fuori dalla casta del suo tempo? Non era neanche fuori dalla politica, visto che faceva il senatore. Ma soprattutto – come scrive Galli Della Loggia – con lui ed Einaudi il Corriere “divenne l’espressione organica di un ambiente economico come quello lombardo, allora legato soprattutto all’industria manifatturiera”. Anche oggi il Corriere è legato ai più potenti ambienti economici e finanziari. Qualcuno si è chiesto se non sono anch’essi una casta e magari più potente dello scalcagnato mondo politico. Il Corriere non vuole accendere un riflettore anche su quella casta? E’ scomodo? Al tempo di Albertini, per esempio, questo mondo contava più della politica e spinse l’Italia in uno dei baratri più cupi del Novecento: la Prima Guerra Mondiale. Almeno così afferma il bel libro di Antonio Gibelli, “La Grande Guerra degli italiani”, pubblicato dalla Rizzoli (l’editore del Corriere). All’inizio del 1915 la carneficina era già iniziata. L’Italia era ancora neutrale e non aveva alcun interesse ad entrare in quel macello, anche perché le sue aspirazioni territoriali si potevano soddisfare per via di trattativa. Inoltre la maggioranza del popolo e la maggioranza del Parlamento, a partire da Giolitti (come pure la Chiesa), erano contrari. E allora come fu fatto l’errore? Scrive Gibelli: “La guerra fu imposta in Italia da una minoranza (la Corona, il governo, gli intellettuali e gli studenti interventisti di orientamento nazionalista o neorisorgimentale, una parte del mondo industriale, alcuni grandi giornali come il ‘Corriere della sera’) contro la volontà della maggioranza parlamentare, contro l’opinione delle maggiori correnti politiche e delle masse popolari”.

Fu una “inutile strage”: 700 mila morti (perlopiù di figli di contadini) su 36 milioni di abitanti. E fu questo orrore a spalancare le porte al fascismo, ben più degli errori dei politici. L’editoriale di Stella ieri si concludeva invece addossando ai politici la responsabilità del fascismo: “Forse, se i politici ‘padreterni’ di allore lo avessero ascoltato senza fare spallucce (il Corriere, nda) tre anni dopo ci saremmo evitati la Marcia su Roma”. Ma non è così. Fu la Grande guerra a consegnare l’Italia nelle mani di Mussolini. E la guerra non fu innanzitutto un errore dei politici (sia pure mediocri). Scrive Gibelli nel suo libro rizzoliano: “Gli industriali, primi fra tutti quelli dei maggiori complessi siderurgici, videro dunque nella guerra l’unica soluzione ai loro problemi e gettarono nello scontro tutta la forza delle loro entrature negli ambienti governativi nonché la loro capacità di orientamento dei maggiori organi di stampa. Tra questi si distinse il ‘Corriere della sera’ diretto da Luigi Albertini, punta di diamante dello schieramento favorevole all’entrata in guerra”.

Sarebbe stato molto più saggio, per l’Italia, ascoltare il neutralista Giolitti, avversato da Albertini come “politicante”.

Antonio Socci

da: Libero del 29/9/2007