Del libero arbitrio: Veltroni, Berlusconi e la vita

Il relativismo che si maschera oggi sotto la parola democratico ,come ieri il comunismo, pone al centro del suo modello antropologico il motto “vietato vietare” e –conseguentemente- di fronte ad obiezioni di tipo etico si ricollega al diritto inalienabile degli individui di ricorrere al libero arbitrio. Ma tale sottigliezza linguistica nonché semantica non è sufficiente a nascondere la menzogna culturale sottesa al modello di riferimento, ovverosia che la libertà coincida appunto con il libero arbitrio.

Già San Tommaso aveva a questo proposito posto come definizione di libero arbitrio l’assenza di vincoli posti dal destino, cioè l’indipendenza che l’uomo rivendica per le sue azioni: ”Quantum ad exercitium actus voluntas a nullo obiecto de necessitate movetur” (Summa). Il libero arbitrio è inoltre una novità introdotta dal cristianesimo, il quale si differenziava dal pensiero pagano che vedeva l’uomo vittima del fato, tanto che il neo-paganesimo lo ri-nega rendendo l’uomo dipendente da una qualche forma di destino (Spinoza). Neppure i chiodi della Croce riescono a negare la possibilità del libero arbitrio. Mentre infatti San Disma, il Buon Ladrone, posto alla destra della Croce, riconosce la santità di Cristo, quello alla sinistra la bestemmia. La prima differenza sta nel fatto alquanto evidente che il libero arbitrio è un dono della natura umana, mentre la libertà è figlia di aspre ed eroiche conquiste. La seconda differenza riconosce la libertà -che San Paolo nelle sue predicazioni indicava come libertà dal male (Romani 6,18)- figlia dell’uso virtuoso del libero arbitrio, contrastabile solo dall’inganno e dalla menzogna, oggi identificabile nella manipolazione mass-mediatica.

Se infatti nessuno può impedire l’esercizio del libero arbitrio, il cammino della libertà può essere ostacolato dall’ideologico “vietato vietare”, che promuove la licenza trasformando la libertà in diritto ad uso esclusivo dello Stato. Così è lo Stato a diventare licenziatario dei diritti, in particolare quello di vivere e di morire. Il pericolo totalitario che ha visto il Novecento caratterizzarsi per i massacri e gli “s-termini” (termine senza termine) staliniani, nel nome dell’ascesa della classe, e nazisti, nel nome dell’ascesa della razza, ci si sta riproponendo sotto una nuova forma, rassicurante per il bianco del camice da laboratorio, forte della compassione sociologica, della libertà, altisonante nel nome dell’autodeterminazione e dell’emancipazione individuale. In sostanza è chi detiene il potere che stabilisce i fini. E se il potere si rifà ad un’ideologia perde la sua essenza di servizio per rivestirsi di quella di comando. L’utile viene allora ad essere il paradigma di riferimento. La perdita di libertà dell’uomo si sostanzia in quel conflitto di interessi, figlio del prefisso “auto” come autodeterminazione e/o autoreferenzialità, che vede come giudice unico lo Stato e non più la Natura.

Per questo oggi è importante comprendere e ponderare che di fronte al rischio di derive totalitarie o dittatoriali la battaglia politica è in primis una battaglia culturale e non una semplice lotta per spartirsi la cassa tra massoni. La deriva ideologica veltroniana tecnocratico-risorgimentale, che trasferisce il diritto dalla persona allo Stato e da questo al mondo della finanza globale nel nome del libero arbitrio, si scontra oggi con l’utopia berlusconiana, che fa della libertà di autorealizzazione economica l’orizzonte di riferimento della vita dell’uomo, rimanendo alquanto ondivaga sulla questione di fondo, cioè il rapporto vita-libertà, nel nome di una anarchia etica che non dà certezze sul futuro e che rischia di trasformare un’utopia in una ideologia. Da un totalitarismo sociologicamente compassionevole ad un altro economicamente centrato? Il futuro potrebbe perciò portare con sé il rischio di ridicolizzare e svuotare di senso la libertà, che invece è continua, paziente e concreta battaglia per la creazione di un mondo in cui il potere umano sia minimale, in cui a tutti sia dato il modo di realizzarsi, autenticamente e non sulla pelle degli altri; che –ancora- necessita di essere continuamente nutrita dalla speranza , quindi dalla linfa della vita e non dalla morte. In questo scenario e secondo queste premesse sul fondamento della “nobiltà” dell’uomo-persona per la politica, le nostre coscienze non possono esimersi dall’essere scosse, interrogate, stimolate ed anche punte dallo sforzo e dalla sfida di Ferrara, il cui essere generalmente inviso altro non è se non un segnale di conferma. Sappiamo pensare e credere che la Vita sia centro unificatore e stabilizzatore di una comunità? Se la risposta è affermativa, tale “provocazione” merita di essere colta e valorizzata con il voto, al fine di evitare che le ideologie e le utopie si fondano, rendendo la libertà e la vita una merce di scambio. Il sommo Dante ricorda nel De Monarchia che “Il genere umano raggiunge la perfezione quando realizza tutta la rassomiglianza con Dio compatibile con la sua natura. Ma questo suo massimo di rassomiglianza con Dio corrisponde al suo massimo di unità”. Non è allora necessario credere in Dio per capire come la Vita sia fondamentale per un mondo coeso, basta l’utilizzo del Logos; perché se è vero che “pensare è uno sforzo e credere un lusso” (Marcuse) è altrettanto vero che non pensare possa trasformare il mondo in una discarica culturale ove il nulla si ponga a paradigma esistenziale.

Matteo Dellanoce

da: --- del 10/6/2007