Il futuro in ostaggio del pensiero malato.

La cultura dominante si trova impreparata di fronte ai progressi della tecnologia, perché le manca il «minimo etico»: quelle due o tre verità sull’uomo che possano fissare i paletti e definire la società nella quale alla fine si desidera vivere. Un nuovo saggio del cardinal Ersilio Tonini. Qual è il rischio del futuro? C’è un futuro che ormai è scritto e che è ancora tutto da risolversi, non si è ancora pronunciato in pienezza, ed è il grande tema della potenza tecnologica che l’uomo sta acquisendo, con prospettive incredibili. Pensate alle questioni più urgenti in materia di bioetica, nelle quali c’è la tentazione da più parti di ridurle ad argomento dei dibattiti parlamentari. Ora, di fronte a questo grosso problema la cultura attuale è impreparata.

Perché? Perché non ha il mezzo per trovare quello che i filosofi del diritto chiamano il minimo etico: quelle due o tre verità sull’uomo che possano stabilire la norma per «fissare i paletti» e per definire la società nella quale si desidera vivere. Il fatto è che il pensiero è malato, che la cultura dominante non ha più nessuna stima, perché il pensiero è fatto per sua natura per nutrirsi di realtà, e perciò per offrire agli uomini una verità che esso scopre nelle cose. Ma questo oggi è intollerabile, perché nel frattempo è emerso un nuovo valore fondamentale: la libertà. Le cose, la natura non valgon più nulla; vale la seconda natura, quella che l’uomo crea con le sue mani. Sarà da Hegel in poi che si parlerà di cosivismo, di cose in sé che non valgono nulla, perché non hanno ricevuto l’impronta della mente umana. E poiché la libertà – ecco il grande tranello – è la condizione per compiere atti morali, la conclusione è quella descritta da Emanuele Severino: la volontà di dominio dell’uomo non può dispiegarsi completamente se esiste il limite invalicabile della verità definitiva proclamato dall’epistéme. Si noti bene, non dal dogma cattolico, ma dal pensiero greco: le verità di fondo che riguardano l’uomo. Continua dunque Severino osservando che la distruzione del pensiero certo e di ogni struttura eterna e immodificabile della realtà è la condizione del dispiegamento totale della volontà di dominio. È chiaro che qui Dio non ha più niente a che fare e tutto ciò che limita la libertà è perciò stesso disumano. Sarà Sartre poi a dare il tono, quando dirà che, poiché Dio non c’è, nessuno mi ha pensato. Se nessuno mi ha pensato, allora io sono condannato a essere libero, sono io che devo fare me stesso. L’uomo non è nient’altro che quel che progetta di essere, non esiste che nella misura in cui si realizza. Non è, dunque, nient’altro che l’insieme dei suoi atti, nient’altro che la sua vita. Questo – che ho appena accennato – è l’atteggiamento dominante della cultura istintiva ereditata proprio dentro il sangue, una specie di codice genetico della cultura attuale, codice che se fino a ieri era rimasto chiuso nelle biblioteche o limitato alle cattedre universitarie, attraverso i mass media è diventato un po’ il pensiero dominante, respirato senza volerlo. Segno di valore è la trasgressione: più trasgredisci, più eserciti libertà, volontà, potenza di libertà e pertanto sei più uomo; non conta ciò che tu abbia fatto. È chiaro che con questa mentalità sarà ben difficile porre dei «paletti». E i paletti, semmai, si potranno porre solo in base al consenso popolare. E qui entra in crisi la democrazia, perché essa, intendo la democrazia quantitativa moderna, è stata pensata supponendo che ci fossero dei valori stabili, fissi, condivisi da tutti. Non per niente Montesquieu dedica due o tre capitoli alla religione: «Quale religione può ispirare la civiltà di un Paese e dunque essere l’anima della legge». In essi, fatto il confronto ebraismo-islam-induismo, arriva a concludere che solo il cristianesimo può dare una civiltà con valori saldi, che val la pena mettere come anima di una Costituzione.

Noi vogliamo, allora, prima di tutto ringraziare il Signore perché siamo nati in questa comunità dove fummo preparati con la purezza dell’animo, con la rettitudine della coscienza, a sentirci conformi alla verità, a non sentirla in stridore e perciò ad abbracciarla, ad amarla, a goderla, la verità. Ma sarà anche necessario farne oggetto esplicito di problema, preoccupandosi soprattutto della formazione dei sacerdoti, dei laici, dei ragazzi, al gusto della verità. Ritengo infatti che se il pensiero non è disciplinato non riusciamo più a far nulla e ci troveremo dinanzi solo i residui del ’68, i residui della mentalità soggettivistica che confonde sincerità, spontaneità con la bontà e con il valore, che prende la festa in sé come motivo, come valore, non curandosi poi se la festa distrugge l’uomo. Mentalità per la quale soltanto ciò che è assunto in proprio è valido; in altre parole, che fa l’uomo padrone di sé, per cui ogni impegno e ogni valore, anche i più sacrosanti, sono affidati alla libertà, alla volontà, alla spontaneità. Dinanzi a tutto questo occorre il coraggio di essere inattuali oggi per essere attuali domani, recuperando quel valore che per Grazia di Dio ci è stato trasmesso: la Verità. Le speranze nostre, infatti, che sono? Valgono soltanto per l’intensità che ci offrono, per un po’ di pace che ci portano, per un sogno? Poveri noi, se avessimo speranza in Cristo, ma senza essere sicuri che è la Verità, se avessimo fede e speranza in Cristo soltanto per questo mondo: noi saremmo i più miserabili degli uomini, come dice san Paolo.

Il Cardinale Ersilio Tonini

da: Avvenire del 20/2/2009