Morte cerebrale ed
etica della sacralità della vita *
di Peter Singer*
(traduzione di Stefano Rini)
Introduzione
La morte cerebrale è stata
accettata come criterio di morte in modo sorprendentemente pacifico, perché in
genere è stata presentata come una concezione scientificamente migliore della
natura della morte. La scelta di tale criterio, quindi, è stata considerata non
una questione morale ma un problema di pertinenza della scienza medica.
Il primo
scopo di questo saggio è di mostrare che questa convinzione diffusa è
sbagliata.
Il secondo è di mostrare l’erroneità della tesi secondo cui
criterio di morte è la morte di tutto il cervello. Il terzo è di mostrare che
respingere il criterio della morte cerebrale significa alzare la posta in gioco
nel dibattito tra i sostenitori della tesi tradizionale della sacralità della
vita e coloro che intendono respingerla, e che il risultato di tale circostanza
è di rendere meno attraente la tesi tradizionale. Il quarto e ultimo scopo è di
additare una soluzione migliore.
Origini del nuovo criterio di
morte
Nei miei scritti precedenti su
questo tema, ho fatto risalire l’emergere del nuovo criterio di morte al
suggerimento presentato a Robert Ebert, preside della facoltà di medicina
dell’Università di Harvard, dal prof. Henry Beecher, presidente di una
Commissione costituita dalla medesima Università per valutare l’etica della sperimentazione
sugli umani: secondo tale suggerimento, la Commissione doveva porsi
innanzitutto la questione della definizione della morte. Beecher riferì a Ebert
che questa idea era emersa dalle conversazioni che aveva avuto con il dottor
Joseph Murray, chirurgo del Massachusetts General Hospital e pioniere del
trapianto del rene. La necessità di considerare in modo più approfondito la
definizione della morte, scrisse Beecher, emergeva dal fatto che "tutti i
grandi ospedali hanno pazienti in attesa di donatori adatti".1
Il problema assunse un’urgenza ancora
maggiore quando il dottor Christian Barnard realizzò il primo trapianto cardiaco.
Poco dopo, in effetti, Ebert, costituì la Commissione di studio sulla morte
cerebrale e ne affidò la presidenza a Beecher. La relazione finale della
Commissione fu pubblicata sul Journal of the American Medical Association
nell’agosto del 1968. Essa si apre con queste parole:
"Il nostro obiettivo principale
è di definire come nuovo criterio di morte il coma irreversibile. La necessità
di una definizione è legata a due ragioni: 1) il miglioramento delle procedure
di rianimazione e di mantenimento in vita ha prodotto una moltiplicazione dei
tentativi di salvare anche persone in condizioni disperate. A volte questi
sforzi colgono successi soltanto parziali che hanno come risultato un individuo
il cui cuore continua a battere, ma il cui cervello è irreversibilmente
danneggiato. Questa situazione comporta difficoltà enormi per i pazienti
permanentemente privi di capacità intellettive, per le loro famiglie, per gli
ospedali e per tutti coloro che hanno bisogno dei posti letto occupati da
questi pazienti in coma. 2) I criteri di morte obsoleti possono innescare
controversie nel momento in cui si va alla ricerca di organi per i
trapianti."
Coloro che tendono a considerare
l’accettazione della morte cerebrale come una questione puramente scientifica
faranno bene a osservare che la commissione di Harvard non dice affatto che
occorre procedere a una nuova definizione della morte perché gli ospedali hanno
nelle proprie corsie molti pazienti che di fatto sono morti ma che vengono
tenuti attaccati ai respiratori perché la legge non li riconosce tali. Segnala
invece i benefici che una nuova definizione potrebbe avere in termini di
riduzione degli oneri che i pazienti "comatosi" comportano a
famiglie, ospedali e pazienti in attesa di un letto (nonché, aggiunge senza
ulteriori spiegazioni, delle difficoltà che ricadono su loro stessi).
Nell’esporre le proprie ragioni a
sostegno della necessità di una ridefinizione della morte, Beecher è stato
sorprendentemente franco. In un discorso tenuto alla American Association for
the Advancement of Science afferma:
"La nuova definizione ci
consentirà di salvare molte vite umane, poiché, se accettata, ci permetterà di
disporre di un maggior numero di organi essenziali in condizioni vitali per i
trapianti e quindi di salvare moltissime vite umane che oggi vanno
inevitabilmente perdute".2
La relazione finale della Commissione
di Harvard non afferma in nessun punto che la nuova definizione di morte
rifletta particolari scoperte scientifiche o concezioni più avanzate
concernenti la natura della morte. Se la Commissione raccomanda la nuova
definizione di morte, è perché lo status quo crea difficoltà gravi a persone e
istituzioni, e impedisce di usare in modo appropriato gli organi delle persone
in "coma irreversibile" per salvare altre vite umane. Ma quando si
dice che è bene evitare queste difficoltà e garantire la possibilità di usare
questi organi, si pronuncia un giudizio etico, non un giudizio scientifico.
Perciò la decisione di abbandonare la definizione tradizionale di morte e di
optare per la nuova definizione in termini di morte cerebrale è stata una
decisione etica e non scientifica.
La morte come perdita irreversibile
della funzionalità organica integrata
Chi ritenesse che la ridefinizione
della morte in termini di morte cerebrale non implica un giudizio etico
potrebbe argomentare che la Commissione di Harvard ha fatto la raccomandazione
giusta per le ragioni sbagliate.
Ebbene, quali sarebbero le ragioni di
carattere non etico a favore di tale cambiamento? Una risposta tipica è che
l’introduzione dei metodi moderni di terapia intensiva ha reso vago e
indeterminato il concetto di morte, rendendo necessaria l’elaborazione di una
teoria che valga a chiarirlo. Il problema è se questo possa farsi senza
l’intrusione del giudizio morale.
Il tentativo più coerente e
apprezzato di difendere questa tesi è quello messo a punto da due noti
bioeticisti cattolici, Germain Grisez e Joseph Boyle, nel loro libro Life
and Death with Liberty and Justice. Grisez e Boyle sostengono che su un
piano teorico la morte va intesa come "l’interruzione definitiva del
funzionamento integrato caratteristico di un corpo vivente". In questa
prospettiva teorica, continuano,
"tenuto conto del ruolo del
cervello nella conservazione dell’equilibrio dinamico di un sistema
comprendente il cervello stesso, c’è una ragione cogente per definire la morte
in termini fattuali come lo stato di cose in cui si dà una perdita completa e
irreversibile del funzionamento dell’intero cervello. Accettare questa
definizione non significa operare una scelta basata su una valutazione di varie
caratteristiche umane, ma semplicemente aderire a una teoria che quadra con i
fatti".3
Questo passo solleva due
interrogativi. Il primo: è corretto dire che la definizione teorica proposta è
semplicemente una definizione che "quadra con i fatti" e non una
scelta basata su una valutazione di varie caratteristiche umane? Il secondo: è
proprio vero che la perdita completa e irreversibile della funzionalità
dell’intero cervello quadra con questa definizione teorica della morte come
fine del funzionamento organico integrato?
Per rispondere al primo
interrogativo, analizziamo un’obiezione sollevata dagli stessi Grisez e Boyle:
"Qualcuno potrebbe obiettare che
come le funzioni di altri organi possono essere surrogate artificialmente, così
forse la funzione di integrazione svolta dal cervello potrebbe essere vicariata
da un computer. Il respiratore non mantiene tutto l’organismo intatto, ma
assicura la funzionalità di molte sue parti all’interno del sistema, anche
quando tutto il cervello è morto".4
La replica di Grisez e Boyle è che,
innanzitutto, la possibilità di surrogare il funzionamento del cervello è
puramente teorica. Sennonché, questo forse era vero quando essi hanno
pubblicato il loro libro, nel 1979; ma ora, essendo accertata la possibilità di
tenere in vita per settimane, mesi e addirittura anni pazienti in stato di
morte cerebrale, sembra falso.
Una ricerca condotta da Alan Shewmon,
professore di neurologia pediatrica presso la facoltà di medicina
dell’Università di California, Los Angeles, ha recensito tutta una serie di
casi di pazienti "sopravvissuti" in stato di morte cerebrale per
periodi più o meno lunghi, e precisamente 175 per almeno una settimana, 80 per
almeno due settimane, 44 per almeno quattro settimane, 20 per almeno due mesi e
7 per almeno sei mesi. In tutti questi casi c’era una diagnosi formale di morte
cerebrale pronunciata da un medico, di solito con la collaborazione di almeno
un neurologo o un neurochirurgo. Shewmon osserva che molte volte si tratta di
"inequivoche situazioni di morte cerebrale confermata da numerosi esami
clinici: EEG, flusso sanguigno intracranico e autopsia". In molti di
questi casi, inoltre, il trattamento alla fine era stato sospeso e tutto fa
pensare che, se fosse stato mantenuto, il numero dei pazienti
"sopravvissuti" per lunghi periodi sarebbe stato più alto. Come dice
Shewmon, la diagnosi di morte cerebrale è quasi sempre "una profezia
autoavverantesi", essendo seguita dal prelevamento di organi o dalla
sospensione del trattamento.5 E’ vero che
finora il cervello non è stato rimpiazzato da un computer, ma potrebbe essere
rimpiazzato da una combinazione di tecnologia medica avanzata e di buona
assistenza infermieristica; e l’effetto sarebbe il medesimo: il corpo continua
a funzionare.
Su questi casi Grisez e Boyle
avanzano anche un dubbio empirico:
"Quando il respiratore mantiene
in vita l’intero organismo, è discutibile che ci sia una perdita completa e
irreversibile del funzionamento dell’intero cervello. Ma questo è un problema
la cui soluzione spetta all’indagine empirica, non alla filosofia".6
E’ vero: questo è un problema
empirico e su di esso tornerò tra breve. Ma Grisez e Boyle riconoscono che esso
non risolve la questione filosofica e proseguono affrontando quest’ultima:
"Sul piano filosofico,
all’obiezione noi rispondiamo dicendo che, se il funzionamento del cervello è
il fattore principale di integrazione di un organismo dotato di cervello,
quando tale funzionamento viene meno, ciò che resta non è più nell’insieme
un’unità organica. Quand’anche si mantenga l’equilibrio dinamico delle parti
restanti del sistema, complessivamente esso è un sistema meccanico e non
organico".7
Questo sembra proprio sbagliato. Nel
caso di pazienti affetti dalla sindrome "locked-in" causata da una
lesione grave al tronco encefalico che ha risparmiato altre parti del cervello,
è possibile surrogare virtualmente tutte le funzioni di integrazione proprie
del cervello stesso ricorrendo a macchine.
Almeno in teoria, le macchine possono
svolgere tutte le funzioni di integrazione. Eppure i pazienti affetti
dalla sindrome "locked-in" restano coscienti. Alcuni sono in grado di
dimostrarlo ammiccando in risposta alle domande che vengono loro poste. Altri
non sono in grado di farlo.8 Ebbene, non
sarebbe assurdo dire che, poiché le funzioni di integrazione proprie del
cervello sono state rilevate da una macchina, il paziente è "un sistema
meccanico e non organico", ossia che, pur essendo pienamente cosciente, è
morto?
Il fatto che il nostro corpo sia in grado di integrare le proprie parti
separate, oppure no, non è decisivo.
Se pensiamo che la perdita di tutte
le funzioni integrate (spontanee) è legata alla morte più strettamente della
perdita di tutte le funzioni (spontanee) dei reni, per poter provare la nostra
tesi abbiamo bisogno di un argomento morale. Il caso, reale o ipotetico, di un
paziente affetto dalla sindrome "locked-in" privo di qualsiasi
funzione integrata spontanea dimostra che probabilmente argomenti simili sono
destinati a non risultare convincenti.
Nella nuova definizione di morte,
quindi, è implicita una concezione etica degli esseri umani il cui cervello ha
irreversibilmente cessato di funzionare.
L’idea che questa definizione sia o una
nuova scoperta scientifica o anche solo frutto di un chiarimento della vaghezza
introdotta dai moderni metodi di terapia intensiva è un errore, e un errore
molto diffuso. Già nel 1957, quando si incominciava a usare i respiratori, papa
Pio XII aveva ripetutamente affermato che, quantunque la chiesa continui a
ritenere che la morte interviene quando l’anima si separa dal corpo,
"tocca al medico, e specialmente
all’anestesista, di dare una definizione chiara e precisa di "morte"
e del "momento della morte" di un paziente che spira in uno stato di
incoscienza".9
Il papa, quindi, di fatto demandava
la soluzione di questo problema etico agli specialisti della medicina. Forse
era mal consigliato. Ma non era interesse di nessuno – né dei medici, né degli
ospedali, né delle famiglie dei pazienti in stato di morte cerebrale, né dei
potenziali destinatari degli organi – contestare l’idea rassicurante che
accettare la nuova definizione di morte significava semplicemente affidarsi
agli esperti su una questione tecnica e scientifica. Ciò spiega perché la nuova
definizione ha trionfato senza suscitare grandi controversie. Ma la situazione
sta già cambiando.
Due problemi nuovi per la
morte cerebrale
Dietro l’instabilità del consenso a
favore della morte cerebrale ci sono i problemi posti da due circostanze:
– nuove conoscenze concernenti la funzione del cervello in alcuni
pazienti "cerebralmente morti"
– la morte cerebrale viene
generalmente definita come l’interruzione irreversibile di tutte le funzioni del
cervello.10 Sennonché
oggi sappiamo che i test standard usati dai medici per stabilire la morte
cerebrale non sono in grado di rilevare tutte le funzioni cerebrali. In termini
generali si può dire che i test standard rilevano solo se il cervello in quel momento
elabora informazioni mediante i sensi e il sistema nervoso.
Ma il cervello non è solo un
elaboratore di informazioni. Ha anche la funzione di fornire ormoni che
contribuiscono a regolare diverse funzioni corporee. Ebbene, i test standard
non accertano se il cervello del paziente secerne questi ormoni. In molti casi
questo avviene, ma nondimeno i test standard correttamente applicati
diranno che il paziente è morto.
Di conseguenza, la definizione
giuridica di morte cerebrale e la pratica medica corrente in tema di
certificazione della morte cerebrale come morte hanno imboccato strade diverse.11
Ciò significa che, nelle legislazioni che richiedono la cessazione
irreversibile di tutte le funzioni cerebrali prima che qualcuno sia legalmente
riconosciuto morto, a volte si procede all’espianto del cuore e al suo
trapianto su terzi quando il donatore, per la legge, è ancora vivo.
Integrazione senza
funzionamento del cervello
Se il primo problema nuovo posto dal
criterio della morte cerebrale è che alcuni pazienti giudicati dai test in uso
in stato di "morte cerebrale" hanno ancora delle funzioni cerebrali,
il secondo problema è che altri individui, pur essendo dimostrabilmente privi
di ogni funzione cerebrale, restano nondimeno evidentemente organismi umani
viventi.
Per sopravvivere, essi non richiedono nemmeno una
tecnologia medica particolarmente avanzata. Un paziente, chiamato
"TK", attualmente ha un’età di diciotto anni e mezzo ed è in stato di
morte cerebrale da quando ha contratto una forma di meningite all’età di
quattro anni. Ecco come Shewmon descrive il caso:
"L’edema cerebrale era così
grave che le suture craniali si aprirono. Negli ultimi quattordici anni e
mezzo, i frequenti EEG sono risultati isoelettrici e non si sono osservati né
movimenti respiratori spontanei né riflessi del tronco encefalico. I potenziali
evocati multimodali non hanno rivelato nessun picco intracraniale,
l’angiografia effettuata mediante la risonanza magnetica non ha registrato
nessun flusso sanguigno intracranico e il neuroimaging ha dimostrato che
l’intera cavità cranica era piena di membrane disorganizzate, di fluidi ricchi
di proteine e di vaghe tracce del cervello di un tempo".12
Questo giovane è a casa collegato a
un ventilatore e viene alimentato tramite gastrostomia. Negli oltre quattordici
anni trascorsi dall’insorgere della meningite egli non ha mai fatto registrare
nessuna funzionalità cerebrale, ma è cresciuto e ha superato varie infezioni;
le ferite arrecategli si sono rimarginate. Shewmon, che ha esaminato TK
e ha documentato ogni cosa anche fotograficamente, conclude:
"Indubbiamente egli è entrato in stato di morte cerebrale all’età di
quattro anni; ma altrettanto indubbiamente è ancora vivo a diciotto anni e
mezzo".13
Come abbiamo visto in precedenza,
secondo Grisez e Boyle è dubbio che, quando un respiratore mantiene l’intero
organismo, si dia realmente una perdita completa e irreversibile dell’intero
cervello. E come abbiamo visto in certi casi forse hanno ragione: il cervello,
per esempio, potrebbe continuare a svolgere funzioni ormonali. Ma in casi come
quello di TK test inconfutabili hanno mostrato che il cervello non
esiste più e che quindi non può esservi nessuna funzione cerebrale. Così,
anziché ingenerare dubbi sull’affidabilità della diagnosi di morte cerebrale,
questi casi ci costringono a riconsiderare l’assunto su cui fanno leva Grisez e
Boyle per giustificare l’accettazione del criterio della morte cerebrale, ossia
la tesi che un cervello funzionante sia condizione necessaria dell’esistenza di
un organismo integrato. Diversamente da loro, Shewmon conclude: "L’unità
integrata del corpo deriva dalla mutua interazione delle sue parti, non
dall’azione sovraordinata di un "organo fondamentale" su un puro e
semplice aggregato di organi e tessuti". Come ciò sia possibile e quali
siano le parti che interagiscono per mantenere questa unità integrata, è un’interessante
questione scientifica, ma esula dalla portata di questo saggio.14
Implicazioni di questi
due problemi
Esaminiamo, per cominciare, le
implicazioni del primo problema, ossia del fatto che alcuni pazienti
attualmente dichiarati in stato di morte cerebrale e quindi usati per la
donazione di organi hanno ancora un cervello funzionante. E’ significativo che,
da almeno cinque anni, di articoli che recensiscono la letteratura su queste
situazioni ne sono comparsi parecchi su riviste presenti in tutte le
biblioteche mediche. Ed è ragionevole ipotizzare che almeno alcuni di coloro
che li hanno letti avessero un atteggiamento improntato al principio del
rispetto assoluto della vita. Eppure nessuno ha gridato allo scandalo. Di
picchetti organizzati davanti agli ospedali che praticano i trapianti di cuore
non c’è notizia. Non si è notato neppure uno sforzo concertato di modificare la
pratica medica corrente per far sì che nessun organo venga espiantato prima che
siano venute meno tutte le funzioni cerebrali. Come si spiega tutto ciò?
La ragione ovvia è che, anche se questi pazienti hanno alcune funzioni
cerebrali, tali funzioni non sono quelle che ci stanno a cuore. Ma questo da un
lato fa pensare che non tutte le funzioni cerebrali contano ugualmente e,
dall’altro, solleva un interrogativo ulteriore: quali sono le funzioni che
contano? E perché? Riprenderò queste domande fra breve, dopo aver considerato
l’implicazione del secondo problema.
Il secondo problema è che oggi ci
sono buone ragioni per pensare che un organismo umano possa
"sopravvivere" come organismo per anni dopo la cessazione di tutte le
funzioni cerebrali e che quindi il cervello non è essenziale per il
funzionamento organico integrato. Per coloro che, come Grisez e Boyle, considerano
la morte come la perdita irreversibile del funzionamento organico integrato,
questa circostanza lascia aperte due possibilità:
1. continuare a ritenere che la morte
è la perdita irreversibile del funzionamento organico integrato e quindi
respingere l’idea che la morte cerebrale equivalga alla morte; oppure
2. abbandonare l’idea che la morte è
la perdita irreversibile del funzionamento organico integrato e mettere a punto
una nuova concezione della morte che consenta di continuare a sostenere che la
morte cerebrale equivale alla morte.
Gli sviluppi delle tesi di Shewmon su
questo terreno meritano una breve digressione. In quanto cattolico, negli anni
ottanta egli sostenne la tesi che la morte cerebrale equivale alla morte tout
court e nel 1989 presentò alla Pontificia accademia delle scienze la difesa
di una versione che identificava la morte cerebrale con la morte dell’intero
cervello. Attualmente respinge qualsiasi definizione della morte basata sul
cervello. Questa tesi è stata fatta propria anche da un altro studioso
cattolico di spicco, John Finnis, professore di diritto all’Università di
Oxford, e dall'arcivescovo di Colonia, il cardinale Joachim Meisner che ha
dichiarato: "Da un punto di vista cristiano l'identificazione della morte
cerebrale con la morte della persona non è più giustificabile".15
Secondo me, l’arcivescovo ha
perfettamente ragione: chi desidera restare in un’ottica cristiana, e più
specificamente cattolica, deve optare per la prima delle due alternative enunciate
sopra. Essa collima con la visione tradizionale della morte e quadra con la
tradizione ebraico-cristiana. Ma naturalmente solleva scottanti questioni
etiche su trapianti d'organo e sospensione del trattamento per quei pazienti il
cui cervello ha smesso irreversibilmente di funzionare.
Che dire dell'altra opzione? Alcuni
hanno proposto nuove concezioni della morte che ci consentono di continuare a
sostenere la tesi che la morte dell'intero cervello basta a giustificare una
dichiarazione di morte. Il problema è se queste concezioni ci consentano di
continuare a sostenere che la morte dell'intero cervello è anche una condizione
necessaria della morte. Questa è l'opzione che mi accingo a discutere.
Proposta di un nuovo
criterio di morte: la morte del "cervello superiore"
I lettori attenti avranno notato che il passo
precedentemente riferito del rapporto della Commissione di Harvard parlava del
"coma irreversibile" come della condizione per la dichiarazione di
morte. La Commissione, peraltro, parlava anche di "perdita permanente dell’intelletto".
L’espressione "coma irreversibile" appare alquanto strana da usare
per un individuo morto e non coincide affatto con la morte dell’intero
cervello.
Un danno permanente alle parti del cervello responsabili
della coscienza può benissimo significare che il paziente è in una condizione
in cui tronco encefalico e sistema nervoso centrale continuano a funzionare, ma
la coscienza è andata irreversibilmente perduta. I pazienti in stato vegetativo
persistente sono in questa condizione, anche se oggi non si direbbe di loro che
sono in coma.
Va detto che, immediatamente dopo il paragrafo citato
sopra, la Commissione di Harvard prosegue così: "Qui parliamo solo di
quegli individui in coma che non presentano nessuna attività discernibile del
sistema nervoso centrale". Ma le ragioni avanzate dalla Commissione per
ridefinire la morte – le sofferenze dei pazienti e delle loro famiglie, i
problemi degli ospedali e della comunità, per non dire della perdita degli
organi necessari per i trapianti – si applicano in pieno a tutti coloro
che sono in coma irreversibile, non solo a coloro il cui intero cervello è
morto.
Perché allora la Commissione ha detto che stava parlando
solo dei pazienti che non presentano nessuna attività cerebrale? Una ragione,
forse, sta nel fatto che la Commissione credeva – come molti altri dopo di essa
– che le funzioni corporee di individui il cui intero cervello era morto
possono essere mantenute solo per un giorno o due. Se sopravvive il tronco
encefalico, il corpo può continuare a funzionare indefinitamente e, per farlo,
non ha bisogno d’altro che di cibo, di fluidi e di assistenza infermieristica
di base.
Una seconda ragione potrebbe essere che nel 1968 la sola
forma di "coma irreversibile" che poteva essere diagnosticata
affidabilmente – senza possibilità di assistere poi al "risveglio" di
pazienti dichiarati morti – era quella caratterizzata dall’assenza di ogni
attività cerebrale discernibile.
Un’altra
ragione possibile per cui la Commissione ha deciso di ridefinire la morte
legandola all’assenza di ogni attività cerebrale è che questi pazienti, se si
toglie loro il respiratore, cessano immediatamente di respirare e quindi
risultano morti secondo qualsiasi criterio. Invece le persone in stato
vegetativo persistente continuano a respirare senza assistenza meccanica. Così,
per la Commissione di Harvard comprendere nella propria definizione di morte
coloro che, pur essendo in coma irreversibile, hanno ancora qualche attività
cerebrale, sarebbe stato come dire che è lecito seppellire persone che
respirano ancora.
Oggi noi sappiamo
che le funzioni di certi pazienti i cui cervelli hanno cessato completamente di
funzionare possono essere mantenute per mesi o anni. Così la prima ragione
possibile per restringere la definizione di morte a coloro il cui cervello ha
cessato interamente di funzionare non è più valida. La tecnologia ha eliminato
anche la seconda ragione: sebbene in alcuni casi di pazienti in SVP a lungo
termine noi siamo ancora privi di strumenti completamente affidabili per
stabilire l’impossibilità di un recupero, in altri nuove forme di imaging
del cervello ci consentono di stabilire che le parti associate alla coscienza
hanno cessato di esistere e quindi che la coscienza non può più tornare.
Così delle tre
possibili ragioni per limitare la definizione di morte a coloro il cui cervello
ha cessato completamente di funzionare, resta in piedi soltanto l’ultima: il
problema di dichiarare morti dei pazienti che respirano spontaneamente.
Una soluzione
dell’attuale stato insoddisfacente della definizione di morte, quindi, è quella
di combinare le implicazioni delle ragioni per cui la Commissione di Havard ha
optato per la morte cerebrale con le nostre migliorate capacità diagnostiche e
di passare a definire la morte in termini di perdita irreversibile della
coscienza. Con la perdita irreversibile della coscienza, noi perdiamo tutto ciò
che apprezziamo nella nostra esistenza e tutto ciò che ci dà ragione di sperare
nella sopravvivenza di coloro che amiamo.
Il significato della
coscienza e il suo legame con il cervello risponde all’interrogativo
fondamentale – "perché il cervello?" – a cui i sostenitori del
criterio della morte dell’intero cervello non sono mai stati in grado di
rispondere in modo soddisfacente. La morte del cervello è la fine di tutto ciò
che conta nella vita di una persona. Naturalmente, la morte delle parti del
cervello necessarie alla coscienza è anche la fine di tutto ciò che conta nella
vita di una persona. Così la definizione di morte in termini di perdita
irreversibile della coscienza significa che criterio di morte è la cessazione
irreversibile della funzionalità di ciò che viene variamente indicato come
corteccia, emisferi cerebrali o cerebrum. Per sottrarmi alla necessità
di definire tutto ciò in modo più preciso, io userò l’espressione
"cervello superiore" per indicare tutte le componenti del cervello
che sono necessarie alla coscienza.16
Vogliamo veramente
introdurre un nuovo concetto di morte implicante che esseri umani caldi e in
possesso di respirazione spontanea sono morti? Dubito che sia saggio tentare
una ridefinizione così riformatrice di un termine di uso comune. Il termine
"morto" ha un campo di applicazione che va molto al di là della sfera
degli esseri umani o coscienti.
Vita e morte sono
stati che possono attribuirsi a tutte le cose viventi, anche a quelle prive di
un cervello e, a maggior ragione, di una corteccia cerebrale. Che ragione c’è
di alterare un concetto che tutti quanti comprendiamo così bene? Si aggiunga
che la stessa revisione molto più modesta proposta dalla Commissione di Harvard
deve ancora essere assorbita nel modo in cui la gente pensa la morte. Accade
tutti i giorni di leggere titoli di giornali del tipo "Donna in stato di
morte cerebrale partorisce e muore". Se tenteremo di dire ai parenti che
il loro caro è morto, mentre giace in un letto senza attrezzature mediche in
vista e respira normalmente, non ci crederanno assolutamente. E giustamente,
giacché al pari dei teorici della svolta iniziale a favore della morte
cerebrale commetteremmo l’errore di trasformare un’importante decisione etica
in una questione scientifica fattuale.
Jeff McMahan
recentemente ha difeso il criterio della morte del cervello superiore sulla
base di una metafisica esplicitamente dualistica.17
Prendendo avvio
dall’affermazione di Mark Johnston che noi non siamo "organismi
essenzialmente umani",18 McMahan cerca di separare la morte della persona dalla morte dell’organismo.
La nostra sopravvivenza come persone richiede la "continuità della
mente"; e quindi a tutti i fini pratici la nostra esistenza continuativa
"richiede la preservazione dei vari poteri o capacità mentali radicati
nelle aree del cervello in cui si dà coscienza e attività mentale".19 Così,
diversamente dagli organismi privi di mente, noi possiamo morire anche se il
nostro corpo resta ancora vivo. Secondo McMahan, i parenti del paziente il cui
corpo caldo continua a respirare in una corsia di ospedale hanno ragione di
pensare di non trovarsi di fronte a un corpo morto. Ma non sbagliano nemmeno se
pensano che la persona che amavano se n’è andata per sempre. Nella terminologia
di McMahan, quella persona è morta.
McMahan riconosce
che la categoria degli "organismi dotati di mente" da un lato non è
limitata alla specie umana, dall’altro non è applicabile a tutti i membri di
tale specie. Un cane può essere morto anche se il suo corpo continua a vivere e
un infante umano anencefalico è un organismo umano vivente privo di mente.
La proposta di
McMahan ha un merito considerevole. Lasciando un ruolo all’idea che gli organismi
umani muoiono nello stesso senso in cui muoiono le piante, fa meno violenza
alla concezione comune della morte di altri modi di passare, per gli uomini, a
una definizione della morte come morte del cervello superiore. Ma lo stesso
McMahan ammette che separare la morte della persona dalla morte dell’organismo
di per sé non basta a risolvere le questioni importanti di che cosa possiamo o
non possiamo fare dei bambini anencefalici e in SVP. La prospettiva di McMahan
ci aiuta a concettualizzare che cosa accade quando l’encefalo è stato
distrutto, ma il corpo continua a vivere; tuttavia non ci dice se possiamo
espiantare il cuore di un organismo umano vivente che ha cessato di essere una
persona.
Il contrasto tra
le tesi sostenute da McMahan e quelle svolte da Shewmon, Finnis e Meisner
acuisce la differenza tra le opposte visioni della questione di quando sia
lecito porre fine alla vita dell’organismo umano. Con il rifiuto dell’idea che
la morte del cervello sia anche la morte dell’essere umano, è venuta meno la
possibilità di una posizione intermedia.
Si consideri
questo brano di Grisez e Boyle:
"Se è
possibile considerare correttamente "morti" certi individui che prima
erano considerati vivi e se a molti sembra corretto trattare questi individui
come morti, allora la legge può approvare ciò che la gente considera corretto
senza ammettere l’omicidio, giacché trattare un morto come tale non può
costituire omicidio. Così una corretta definizione della morte, se è in grado
di eliminare alcune false classificazioni di individui morti all’interno dei
viventi, può alleviare la pressione per la legalizzazione dell’eutanasia – in
questo caso, la pressione derivante da un atteggiamento corretto verso gli
individui realmente morti considerati viventi solo a causa di confusione
intellettuale".20
La posizione
complementare può essere enunciata in questi termini:
"Se non è
possibile considerare correttamente "morti" certi individui che a
molti sembra corretto trattare come morti, allora, perché la legge approvi
quelli che la gente considera modi corretti di trattare gli individui
appartenenti a tali classi, occorre cambiare le norme concernenti l’omicidio.
Così il ritorno a una definizione più tradizionale della morte aumenterebbe la
pressione per la legalizzazione dell’eutanasia, giacché altrimenti la legge
tratterebbe come omicidio modi di trattare queste classi di individui che a
molti sembrano corretti".
Il fatto che negli
ultimi due o tre decenni si sia imposta la definizione della morte in termini
di morte cerebrale, naturalmente, non ha avuto solo l’effetto di allentare la
pressione a favore della legalizzazione dell’eutanasia. Ha anche consentito ai
difensori della visione tradizionale della sacralità della vita umana di
giustificare la rimozione di organi vitali da pazienti che altrimenti sarebbero
stati considerati viventi e la donazione di tali organi ad altri individui che,
diversamente, sarebbero morti. Per i sostenitori della visione tradizionale
questa operazione diventerebbe molto più difficile in caso di abbandono del
criterio della morte cerebrale.
Dico "molto
più difficile" e non "impossibile", perché, forse
sorprendentemente, la tesi che gli esseri umani il cui cervello ha cessato
irreversibilmente di funzionare sono ancora viventi non risolve in via
definitiva la questione della liceità della sospensione del trattamento e della
rimozione degli organi nemmeno per i cattolici. Lo stesso Shewmon dichiara che
la sua prospettiva non preclude la possibilità dei trapianti, giacché
"la rimozione
di organi vitali da un paziente appena scollegato da mezzi straordinari
("sproporzionati") di sostegno alla vita dopo la cessazione
definitiva del battito cardiaco e della circolazione, ma prima della morte
effettiva, è lecita. In tal modo, infatti, la morte non è né causata né
affrettata dal prelievo degli organi".21
Ciò può avvenire,
afferma Shewmon, se "la decisione di sospendere l’applicazione di mezzi
straordinari (di solito un ventilatore meccanico) è corretta e moralmente
giustificata in se stessa (e il coma irreversibile dovuto a estesa distruzione
del cervello sembra una circostanza particolarmente appropriata)". In tal
caso la procedura di rimozione degli organi non avrebbe inizio se non quando il
ventilatore sia stato spento, il cuore abbia cessato di battere e sia passato
un periodo di tempo breve, ma sufficiente a garantire che il cuore non possa
ricominciare spontaneamente a battere. Poiché il cuore, lasciato a se stesso,
non ricomincia a battere, la sua rimozione non affretta la morte del paziente.
Indubbiamente
questo approccio al trapianto d’organi in diversi casi ingenererebbe non poche
difficoltà pratiche. Ma a parte la probabile diminuzione del numero di organi
vitali che esso consentirebbe di prelevare, l’argomento di Shewmon presenta
anche una lacuna di carattere etico.
Esso afferma che
in caso di coma irreversibile dovuto a estesa distruzione cerebrale, è
moralmente accettabile sospendere l’uso di mezzi di trattamento straordinari o
"sproporzionati". Ma come si giustifica questo?
La dottrina che conosciamo dice che il trattamento
straordinario non è obbligatorio quando impone al paziente o ad altri gravami
sproporzionati – sproporzionati, ovviamente, rispetto ai benefici conseguiti.
La conseguenza è che possiamo sospendere l’uso dei mezzi straordinari di
sostegno alla vita quando questi causano sofferenze e tensioni a un paziente
destinato in ogni caso a vivere solo per poco tempo. Ma si consideri il caso di
TK, il giovane il cui cervello ha cessato di funzionare quattordici anni
fa. Supponiamo che in questi quattordici anni sia stato vivo, ma completamente
privo di coscienza. Ebbene, come si può dire che l’uso del ventilatore sia
stato sproporzionato ai benefici prodotti? Di fatto, ha prolungato la vita del
giovane di quattordici anni; e dal momento che egli è privo di coscienza, non
gli ha arrecato nessuna sofferenza. Indubbiamente, per la stessa ragione, non
gli ha nemmeno arrecato gioia. Ma dire che il prolungamento di una vita umana
non è un beneficio significativo, o che è privo di valore, in quanto non
produce né gioia né alcun tipo di esperienza consapevole significherebbe
imboccare una strada che i cattolici non possono accettare, giacché pone al
centro delle decisioni concernenti vita e morte un giudizio sulla qualità della
vita.
Così, se Shewmon
ha ragione quando afferma che gli esseri umani in stato di morte cerebrale sono
viventi e che almeno alcuni di essi possono essere tenuti in vita per molti
anni senza impegnare cospicue risorse mediche, sembra che la distinzione tra
mezzi "ordinari" e "straordinari", o
"proporzionati" e "sproporzionati", di cura non possa
essere usata per giustificare la sospensione del sostegno medico nei confronti
di pazienti in stato di morte cerebrale che potrebbero sopravvivere per molti
anni. A fortiori non può considerarsi lecita la rimozione dei loro
organi vitali.
Un
approccio alternativo
In precedenza ho segnalato il fatto che, sebbene fosse
noto da diversi anni che si prelevavano organi a persone ancora in possesso di
alcune funzioni cerebrali e quindi (in molte giurisdizioni) legalmente non
ancora morte, la cosa non ha sollevato obiezioni particolari. Ho avanzato
l’idea che ciò dimostra che per la gente le varie funzioni cerebrali sono
diverse tra loro: alcune ci stanno a cuore, mentre ad altre non annettiamo
alcuna importanza. Se chiedessimo quali funzioni dell’apparato nervoso centrale
sono importanti, credo che la maggioranza delle persone penserebbe come minimo
a quelle associate alla coscienza. Se si sapesse che sono stati prelevati
organi vitali a pazienti ancora capaci di coscienza, con ogni probabilità
scoppierebbe uno scandalo – cosa, invece, molto più difficile di fronte a
notizie di prelievi da pazienti il cui cervello continua semplicemente a
secernere ormoni.
L’importanza della
coscienza può far pensare alla necessità di passare a una definizione della
morte come morte del cervello superiore. Ma questa non è la sola conclusione
possibile. Affermare che gli esseri umani muoiono quando perdono
irreversibilmente la capacità di essere coscienti è troppo paradossale. Questa
tesi ci costringerebbe a considerare morti esseri umani che respirano e il cui
cuore batte senza alcuna assistenza esterna. Sull’esempio di McMahan, potremmo
ammettere che questi organismi umani sono viventi, ma insistere che attualmente
"non sono occupati", nel senso che hanno cessato di essere persone.
In tal caso,
dovremmo proseguire dicendo che, di fronte a questioni morali come quelle della
liceità della rimozione degli organi o della sospensione del sostegno alla
vita, la cosa importante è la morte della persona, non quella dell’organismo
umano.
C’è, però,
un’altra possibilità: accettare la concezione tradizionale della morte, così
allineandoci, al riguardo, sulla posizione di Shewmon e Finnis, ma respingere
la loro tesi che è sempre moralmente sbagliato mettere fine intenzionalmente
alla vita di un essere umano innocente; e proseguire sostenendo essere
moralmente accettabile (una volta che sia stato dato il necessario consenso)
sospendere ogni sostegno alla vita e rimuovere gli organi a scopo di trapianto
quando la coscienza sia stata irreversibilmente perduta.
Così facendo,
perverremmo allo stesso esito pratico a cui si approderebbe ridefinendo la
morte in termini di perdita irreversibile della coscienza. E, per usare le
parole della Commissione di Harvard, otterremmo il risultato di alleviare le
difficoltà create a famiglie, ospedali e malati bisognosi di posti letto, dalla
necessità di curare persone che non potranno mai recuperare la coscienza. In
tal modo ovvieremo alle difficoltà poste non solo dai malati affetti da
cessazione della funzionalità dell’intero cervello, ma anche da quelli il cui
tronco encefalico continua a operare. E lo faremo senza dover dichiarare morti,
in nessun senso, quei pazienti che respirano senza il supporto di attrezzature
mediche. Un’ultima conseguenza, non meno importante, è che avremo elaborato
giudizi morali trasparenti che, lungi dall’ostacolare la comprensione delle
questioni in gioco da parte del pubblico, la promuoveranno.
La sola obiezione
seria che, secondo me, potrebbe essere rivolta a questa proposta è che essa,
per quanto logicamente cogente e rigorosa, è così lontana dalla realtà da non
avere nessuna probabilità di successo. Rappresenta, infatti, una sfida diretta
alla dottrina tradizionale della sacralità di ogni vita umana. Alcuni, anzi,
diranno: meglio impegnarci a contenere la portata di quella dottrina estendendo
la definizione di morte a coloro che hanno perduto irrimediabilmente la
coscienza che lanciarci inutilmente all’attacco di una fortezza così
inespugnabile. Meglio, in altre parole, continuare nella finzione di
identificare la morte tout court con la morte cerebrale e cercare di
estenderla ulteriormente.
Indubbiamente, ci
sono circostanze in cui le finzioni servono una buona causa e quindi meritano
di essere confermate. Ma qui non mi sembra il caso. Da un lato, infatti, tale
finzione sta comunque sgretolandosi da sola; dall’altro, la dottrina della
sacralità della vita viene sempre più abbandonata sia dalla pratica medica che
dalla legge. Infine vale la pena di osservare che le leggi di alcuni paesi
accettano già pacificamente la possibilità di una disgiunzione tra morte e
rimozione di organi. Una recente legge giapponese afferma che la morte
cerebrale segna la fine della vita solo nei casi in cui il paziente ha dato in
precedenza il consenso scritto a diventare donatore di organi.22 Chiaramente questa
non è una definizione della morte: non è credibile che la tua morte avvenga in
un certo momento, se hai dato tale consenso, e in un altro, se non l’hai dato.
Questa legge stabilisce, invece, quando è possibile procedere alla rimozione
degli organi. Analogamente in Germania una nuova legge sui trapianti d’organo
stabilisce che la rimozione diventa possibile nel momento in cui il cervello ha
cessato irreversibilmente di funzionare. Non dichiara che gli individui il cui
cervello ha cessato irreversibilmente di funzionare sono morti.23 Queste leggi
chiaramente si muovono nella direzione che io propongo.
* Versioni precedenti di
questo saggio sono state lette al Dipartimento di filosofia della Princeton
University e alla Philosophical Society dell’Università di Oxford. Sono grato a
coloro che hanno partecipato a quegli incontri per le critiche molto utili che
hanno formulato. Ringrazio in particolare John Finnis, che ha preso posizione
sul mio saggio a Oxford, e Alan Shewmon, che mi ha fatto leggere, prima della
pubblicazione, tre suoi saggi che promettono di lasciare il segno nel dibattito
sulla morte cerebrale.
** Peter Singer, DeCamp
Professor of Bioethics, University Center for Human Values, 5 Ivy Lane,
Princeton University, Princeton, NJ 08544-1013 (USA).
1. H. Beecher a R. Ebert,
30 ottobre 1967. La lettera, che fa parte dei manoscritti di Henry Beecher
presso la Francis A. Countway Library of Medicine della Harvard University, è
citata in David Rothman, Strangers at the Bedside, Basic Books, New York
1991, pp. 160-61.
2. H. Beecher, "The
New Definition of Death. Some Opposing Viewpoints", International
Journal of Clinical Pharmacology, 5, 1971, pp. 120-121.
3. G. Grisez e J. Boyle, Life
and Death with Liberty and Justice, University of Nôtre Dame Press, Nôtre
Dame (Indiana) 1979, p. 77. Una tesi analoga è illustrata in D. Lamb, Death,
Brain Death and Ethics, Croom Helm, London 1985.
4. Ibid.
5. D.A. Shewmon,
"Chronic "Brain Death": Meta-Analysis and Conceptual
Consequences", Neurology, 51, 1998.
6. G. Grisez e J. Boyle, Life
and Death with Liberty and Justice, cit., p. 77.
7. Ibid.
8. A richiamare la mia
attenzione sul significato della sindrome del "locked-in" in questo
contesto è stato J. McMahan. Cfr. il suo "Brain Death, Cortical Death, and
Persistent Vegetative State", in H. Kuhse e P. Singer (a cura di), A
Companion to Bioethics, Blackwell, Oxford 1988.
9. "The Prolongation
of Life: An Address of Pope Pius XII to International Congress of
Anestesiologists", The Pope Speaks, vol. 4, 1057, p. 396 (trad. it.
in Pio XII, Discorsi ai medici, Orizzonte medico, Roma, 1959, p. 614).
10. Cfr., per es., lo
United States Uniform Determination of Death Act. Si noti che la Commissione di
Harvard parla di assenza di "attività" del sistema nervoso centrale,
non di funzionalità. L’uso del termine "funzionalità", anziché del
termine "attività", rende più permissiva la definizione di morte
cerebrale, giacché, come ha riconosciuto la President’s Commission for the
Study of Ethical Problems in Medicine, in certe cellule o gruppi di cellule
l’attività elettrica e metabolica può continuare anche dopo che l’organo ha
cessato di funzionare. Secondo la Commissione il proseguimento di queste
attività non basta a impedire una dichiarazione di morte. (Cfr. il rapporto
della stessa, Defining Death: A Report on the Medical, Legal and Ethical
Issues in the Determination of Death, US Government Printing Office,
Washington (DC) 1981, p. 74.
11. R. Truog e J.
Fackler, "Rethinking Brain Death", Critical Care Medicine, 20,
n. 1, 1992, pp. 1705-1713; A. Halevy e B. Brody, "Brain Death: Reconciling
Definitions, Criteria and Tests", Annals of Internal Medicine, 119:
6, 1993, pp. 519-525; R. Veatch, "The Impending Collapse of the
Whole-Brain Definition of Death", Hastings Center Report, 23: 4,
1993, pp. 18-24.
12. D.A. Shewmon, Chronic
"Brain Death", cit.
13. D.A. Shewmon,
""Brain-Stem Death", "Brain Death" and Death: A
Critical Re-evaluation of the Purported Equivalence", Issues in Law
& Medicine, 14: 2, 1998.
14. Per una discussione
più ampia, cfr. D.A. Shewmon, "The Brain and Somatic Integration: Insights
into the Standard Biological Rationale for Equating "Brain Death" with
"Death"", Journal of Medicine and Philosophy, in corso di
stampa.
15. Sulla posizione di J.
Finnis, cfr. i suoi commenti inediti alla mia presentazione di questo saggio
presso la Philosophical Society di Oxford il 14 maggio 1998; su quella del
cardinal Joachim Meisner, cfr. il suo Erklärung des Erzbischofs von Köln zum
beabsichtigten Transplantationsgesetz (Dichiarazione dell’arcivescovo di
Colonia sulla proposta di legge sui trapianti d’organo), in Ethik Med,
6, 1994, pp. 189-207, cit. in Shewmon, Brain Stem Death, cit.
16. Una delle
prime difese della definizione della morte come morte del cervello superiore si
trova in M. Green e D. Wikler, "Brain Death and Personal Identity", Philosophy
and Public Affairs, 9, 1980, pp. 105-133.
17. J. McMahan,
"The Metaphisics of Brain Death", in Bioethics, 9, 1995, pp.
91-126.
18. M. Johnston,
"Human Beings", in Journal of Philosophy, 84, 1987, pp. 75-76.
19. McMahan,
"The Metaphisics of Brain Death", cit.; cfr. M. Green e D. Wikler,
"Brain Death and Personal Identity", Philosophy and Public Affairs,
9, 1980.
20. Life and
Death with Liberty and Justice, cit., p. 61.
21. D.A. Shewmon,
""Brain-Stem Death", "Brain Death" and Death: A
Critical Re-evaluation of the Purported Equivalence", Issues in Law
& Medicine, 14: 2, 1998.
22. A. Akabayashi,
"Finally Done – Japan’s Decision on Organ Transplantation", Hastings
Center Report, 27: 4, settembre-ottobre 1997, p. 47.
23. S.
Goldbeck-Wood, "Germany Passes New Transplant Law", British
Medical Journal, 315, 1997, p. 11. Ho tratto questo riferimento da Shewmon,
""Brain-Stem Death", "Brain Death" and Death: A
Critical Re-evaluation of the Purported Equivalence", cit.